ILVA: Una procedura di gara pasticciata e un futuro incerto

ILVA di Taranto: Gara e procedura per far vincere il gruppo Mittal-Marcegaglia. Un pasticcio senza futuro per eliminare la concorenza.

ILVA - Taranto

La gara era un “pasticcio”. Le procedure adottate pure. ILVA doveva andare al gruppo Mittal-Marcegaglia. Il risanamento ambientale entro il 2023. Ma fra sette anni, ci sarebbe ancora stata ILVA? Che prospettive ci sono?

ILVA: Una gara in cui il vincitore era predestinato

Sulle procedure di gara che hanno portato all’acquisizione di ILVA da parte del gruppo indo lussemburghese Arcelor-Mittal sono stati sollevati dei dubbi.

Dubbi che, sottoposti alla valutazione dell’ANAC, sono stati tutti confermati. Ecco l’informativa resa ieri dam Ministro Di Maio alla Camera dei Deputati

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È evidente che la gara è stata creata appositamente perché vincesse il gruppo indo-lussembughese, in cordata con il gruppo italiano Marcegaglia.

Ciò che non è evidente è cosa sarebbe poi accaduto.

Ad esempio, il piano prevederebbe il risanamento ambientale in un arco temporale di sette anni. Sette anni per risanare e bonificare l’ambiente circostante.

A parte che ancora per sette anni la salute della gente permarrebbe a forte rischio, ma siamo certi che fra sette anni ILVA esisterà ancora?

Ricevo da un amico autrevole esperto del settore e pubblico volentieri

La vicenda ILVA, il ruolo di Marcegaglia (che era nella cordata Arcelor-Mittal), il ruolo della vecchia politica, denunciato ieri mattina in Parlamento da Di Maio a proposito di gravi irregolarità nell’effettuazione della gara pubblica, la figura dello stesso Mittal, ci inducono ad una serie di riflessioni.

Mittal

Cominciamo da Mittal: nel 2005, a seguito dell’acquisizione da parte sua di Arcelor, un gruppo Nord Europeo con sede in Lussemburgo, la sua produzione in Europa è salita a 45 Milioni di Ton/anno (il doppio della produzione italiana tutta intera, per dare un’idea dell’ordine di grandezza).

La valutazione di Arcelor fatta da Mittal fu di 32.9 Miliardi di USD.

La sola parcella delle banche, per 5 mesi di lavoro, fu di 400 Milioni di USD.

Sorge spontaneamente una domanda: cosa sono gli 1.8 Miliardi di Eur necessari alla acquisizione di ILVA, di fronte alla possibilità di togliersi dalle palle un potenziale concorrente da 10/15 Milioni di Ton/anno di acciaio, in Europa?

O qualcuno pensa che Mittal continuerà a produrre a Taranto per poi spedire l’acciaio nel Nord Europa?

È lecito chiederselo, vista la rapida de-industrializzazione che si sta imponendo all’Italia (oggi si chiama “privatizzazione”, nei salotti buoni).

Da notare che, nel frattempo, la produzione di ILVA, da 15 Milioni di Ton/anno di acciaio, è scesa a 5 Milioni.

Non ci si chiede nemmeno, forse per pudore, se il gruppo indo-lussemburghese abbia intenzione di risalire ai 15 Milioni di Ton/anno originariamente prodotti.

Forse perchè ognuno, in cuor suo, sa già che spariranno anche gli attuali 5 Milioni …

Anche la nostra stessa storia recente ci dovrebbe insegnare dove portano queste acquisizioni: si veda la chiusura di fatto di Cornigliano, Piombino e Terni (altri 8/10 MMTa di acciaio che hanno preso altre strade). Formidabile la vicenda Terni: 3 MMTa circa di acciaio elettrico che si sono solo spostate da Italia a Germania, alla faccia dei nostri costruttori di motori elettrici.

Marcegaglia

Continuiamo con Marcegaglia.

Giusta appare la decisione recentemente presa dall’Antitrust di estromettere Marcegaglia dalla corsa per ILVA: Marcegaglia è, come si dice, un operatore di “seconda trasformazione”. Non possedendo l’acciaieria, il gruppo Marcegaglia acquista il semilavorato (le bramme) per poi laminarlo e fornire poi il prodotto finale (i coils) agli utilizzatori finali.

In queste condizioni, esiste, in capo a Marcegaglia, un palese conflitto di interesse: ILVA in mano ad AM Investco (la cordata Arcelor-Mittal con Marcegaglia) avrebbe probabilmente continuato a produrre bramme, che rappresentano ossigeno puro per l’attività dell’azienda di Mantova, priva com’è di acciaieria.

Quest’ultima infatti ha comprato bramme in tutto il mondo, persino dall’Indonesia.

Purtroppo, però, va detto che l’ingresso di nuove tecnologie in acciaieria sta di fatto rendendo obsoleto il prodotto semilavorato “bramma”.

L’accordo Mittal-Marcegaglia

Impossibile non chiedersi cosa mai contenesse l’accordo tra Mittal e Marcegaglia.

Sarà nato per caso, oppure dobbiamo pensare che le strette relazioni politiche, intrattenute dalla Signora con i governi precedenti, abbiano avuto un ruolo decisivo in tutta la vicenda?

Interessante la reazione avuta dai Marcegaglia (nella figura dell’AD, Antonio Marcegaglia), e manifestata con l’uscita da Federacciai in seguito alle posizioni di quest’ultima in materia di commercio internazionale:

«Con rammarico, ho dovuto constatare che nelle recenti discussioni su fondamentali tematiche di commercio internazionale, dai dumping alle modalità operative di applicazione della clausola di salvaguardia, Federacciai si è riconfermata in modo deciso “l’associazione dei produttori” (qui, per “produttori”, si intendono gli acciaieri, coloro che posseggono cioè anche l’acciaieria – NdA), disconoscendo le argomentazioni e gli interessi della Prima e Seconda trasformazione, nonostante queste rappresentino una importantissima componente della filiera siderurgica italiana». (da Siderweb del 6 Luglio)

Affermazione quest’ultima, oltretutto assai discutibile.

Diventerà difficile per i Marcegaglia, a questo punto, continuare ad acquistare bramme e coils in Cina, Indonesia o altrove, a prezzi che sono assolutamente inconfrontabili rispetto ai nostri.

Si ricorda solo en passant che i cinesi, producendoselo in casa, fanno uso di carbone, nel cosiddetto ciclo integrale da altoforno (che è anche quello di ILVA).

A prescindere dalla bassissima qualità del carbone là prodotto (con tutte le conseguenze del caso in termini di emissioni nocive), ci troviamo di fronte a costi di materie prime decisamente in dumping (anche sociale) rispetto ai nostri.

Il piano che non c’è

L’ambiente

E veniamo qui al tema ambientale ed alle sue ricadute sulla salute delle popolazioni, all’origine del disastro ILVA.

Ancora non ci è stato detto che cosa Mittal intenda fare a questo riguardo, come giustamente ha sottolineato Di Maio ieri nel corso della succitata audizione.

Da quanto trapela, si sa che chi vi sarà la sostituzione del ciclo produttivo da altoforno con quello a Riduzione Diretta (che utilizza gas naturale invece che carbone) ma nulla è uscito di ufficiale ancora.

Si tratta di un passo nella giusta direzione, giustamente caro ad Emiliano, ma siamo ancora assai lontani dalla soluzione.

Siamo oggi nel pieno di un’ulteriore salto, non molto dissimile da quello che abbiamo compiuto nel dopoguerra; un salto che ci deve condurre a produzioni industriali a basso, bassissimo livello di emissioni.

Dismettere qui produzioni, siano queste di acciaio o di pomodori, non risolve il problema dell’inquinamento e delle emissioni di CO2, in quanto quelle stesse produzioni a noi necessarie avverrebbero in altri paesi, in altri continenti con intatto (se non maggiore) livello di emissioni.

Trattandosi queste ultime di “esternalità”, esse finirebbero pur sempre con il colpire anche noi (io inquino qui, ma l’inquinamento da me provocato coinvolge i mie vicini, i vicini dei miei vicini e tutto quanto il pianeta).

Il massimo del tafazzismo: rinuncio al mio patrimonio culturale ed al benessere che questo offre al mio paese e mi faccio avvelenare dai cinesi e dagli indiani, lontani ancora anni luce da un livello minimo di decenza in fatto di cultura industriale e di sensibilità ambientale.

Ancora una volta però, sono proprio sensibilità ambientale, cultura e tecnologia che ci vengono in aiuto nella soluzione di questa sfida.

Gli esuberi

Un’altra cosa Mittal ci dovrebbe dire.

Va infatti premesso che, all’epoca in cui l’acciaieria funzionava a pieno ritmo, la produzione era di circa 15 Milioni Ton/anno di acciaio, con una manodopera (diretta+indotto) di poco meno che 15,000 persone.

Dal 2012 la produzione è rapidamente crollata fino a meno di 5 Milioni di Ton/anno e, a fine 2017, gli addetti a Taranto erano 10,500. Il piano di Arcelor-Mittal prevede, assai ottimisticamente, una riduzione di 2,900 unità.

Conseguentemente, par di capire, si intenderebbe produrre i 5 Milioni di Ton/anno (l’attuale produzione) con 7,600 addetti. Tale impiego di personale non risulta giustificato: la nuova acciaieria che si andrebbe ad installare, secondo i parametri attuali, non impiegherebbe piu’ di 3,200/3,300 addetti.) il che comporterebbe una ulteriore riduzione di 4,000 e passa addetti circa.

Mittal dovrebbe quindi spiegare che farebbe di circa 7,000 persone.

Il futuro di Taranto

La vocazione del territorio

È comunque chiaro che il problema diventa, a questo punto, di natura anche, largamente, politica.

Taranto, che lo si voglia o no,
 che lo si giudichi positivamente o no, è diventata un’area con una forte connotazione industriale.

Di conseguenza, ha un’altrettanto forte cultura industriale derivante dal fatto che l’acciaieria, per sua natura 
e definizione, è fortemente multidisciplinare e coinvolge nei suoi processi un po’ tutte le discipline scientifiche, dalla chimica alla fisica, alla meccanica, dall’elettrotecnica all’elettronica, all’IT ed all’automazione nelle sue espressioni piu’ avanzate.

Le maestranze, i quadri e i dirigenti ivi formatisi possono a buon diritto vantare conoscenze di assoluta eccellenza.

In definitiva ci troviamo in un’area, Taranto e la sua Regione, pronta a ricevere anche nuovi insediamenti industriali in settori a forte contenuto tecnologico, potendosi oltretutto puntare sull’esistenza di un importante porto marittimo.


Un polo di sviluppo?

Taranto potrebbe a buon diritto diventare, a mero titolo di esempio (e in quanto legato proprio alla produzione di acciaio), un polo di sviluppo e produzione dell’auto elettrica per l’intera Europa, sia con il produttore italiano (se lo volesse) che, eventualmente, con un produttore giapponese (che probabilmente accorrerebbe assai volentieri).

In breve, non si può neanche lontanamente pensare a Taranto come ad una nuova Termini Imerese (senza nulla voler togliere a Termini e alla Sicilia, beninteso): è un mero fatto, come si diceva, di “cultura industriale” che a Taranto c’è, mentre a Termini mancava del tutto.

Nazionalizzazione? Perché no?

Mittal afferma ovunque che non c’è piu’ posto nel mondo per la siderurgia di Stato.

Non valendo dogmi di alcun tipo in questa materia, ma soltanto soluzioni scientificamente ed economicamente razionali, nonchè tecnologicamente realizzabili, non si vede perchè non possa essere di nuovo lo Stato a rilanciare ILVA.

Un rilancio alla luce di un piano volto a creare condizioni per la nascita di un indotto di industrie di avanguardia, che utilizzino un mix di energie a bassissimo livello di emissioni (e costi) e per di piu’ in una Regione in cui già esiste una cultura industriale favorevole.

Chi altri potrebbe tracciare una via cosi’ avanzata verso una nuova industrializzazione?

Per finire, si badi bene, a costo zero per lo Stato: non abbiamo bisogno di soldi pubblici per salvare ILVA, le sue maestranze e un asset industriale che serve all’Italia intera. Ma questo è un altro capitolo …

L’accordo di FCA con Hyundai

L’accordo di FCA con Hyundai, ove Hyundai metterà l’acciaio, sembra cadere a proposito per dare il colpo di grazia a ILVA (grande produttore per automotive) ed a tutto l’acciaio italiano.

Preferiamo pensare alla pochezza di chi ha (s)governato fino ad ora piuttosto che a complotti stellari.

FCA vuole l’acciaio coreano? Chissà che i giapponesi non trovino interessante quello italiano …

Per chi volesse approfondire l’argomento, una dettagliata relazione da scaricare.